L'album in questione è del 2003, la band è quella finnico-statunitense dei Bigelf, i quali, benché non siano proprio dei novellini (più di quattordici anni di attività alle spalle non sono pochi), sono balzati solo di recente all'onore delle cronache nostrane (si fa per dire...) a furia di esibizioni
live, anche accanto a "guru" del Prog come Dream Theater e Opeth. Un vero peccato, perché appartengono a quella categoria di musicisti che ti sbattono il talento in faccia non appena infili il cd nel lettore. E se si tiene conto che non fanno robetta da quattro soldi nobilitata da qualche virtuosismo buttato qua e là - molto utile, di questi tempi, a guadagnarsi la pagnotta, ma decisamente meno se si vuole essere ricordati - bensì rock nudo e crudo con gli attributi, direi che vale senz'altro la pena di tendere l'orecchio... Qui sentirete Moog, Hammond, Mellotron e Gibson SG senza esclusione di colpi. E non mi si venga a dire che è fuori moda, perché la realtà è che per non fare figure barbine serve ancora riconoscere al volo le note di
Immigrant Song, signori...
Ma passiamo al disco, che già quello è intriso di nostalgia... Il
sound è molto caratteristico, praticamente i Black Sabbath che incontrano i Beatles e tutti assieme vanno a pranzo con i Pink Floyd. Rispetto al precedente
Money Machine si sono piuttosto ampliati gli orizzonti - laddove ad inizio carriera l'ispirazione proveniva anzitutto dai toni giullareschi dei Genesis di Gabriel, mescolati con la
grandeur dei King Crimson, al pop di classe di Bowie e alle ricercate commistioni dei primissimi Deep Purple - virando in modo più risoluto verso lo
Stoner Rock. Non stiamo parlando di riesumazioni - attenzione - ma di alchimia. Qui si prendono pezzi di storie (nel vero e proprio senso del termine) diverse e li si fonde per ottenere qualcosa di inedito e soprattutto di credibile (altro che The Answer e compagnia bella...), che al giorno d'oggi è manna dal cielo. E' il lugubre giullare Damon Fox (voce e tastiera nonché leader della band) - con la sua vocalità ruvida accompagnata da
synth alla Beatles, alla Richard Wright o alla Jon Lord o, ancora, alla Robert Fripp o alla Tony Banks, a seconda delle esigenze - l'asse portante anche al livello creativo. Si butta senza timore nella mischia e dice chiaro e tondo che per lui il rock è quello: niente compromessi, e chissenefrèga se non si va su MTV.
Si dà il via alle danze (non mi si fraintenda...) con qualcosa che farà drizzare i capelli a molti: ascoltando
"Madhatter" la prima cosa che verrà in mente è "Ma che fanno, un medley con
"Another Brick in the Wall" e
"Iron Man"?". Risposta: "Sì, embè?". Insomma, è un tributo (persino nel testo), e oserei dire anche un gran tributo, non si può non riconoscerlo. E poi il "ricamo" è di notevole equilibrio, inoltre non si lesina spazio all'originalità (si veda il bel connubio voce-chirarra distorta), quindi onore al merito, è uno dei pezzi di maggiore impatto all'interno del disco; la differenza tra il plagio e la rielaborazione non sfugge a chi se ne intende. Si prosegue con
"Bats In the Belfry II", difficilmente inquadrabile, ma che, muovendosi tra accattivanti innervature elettroniche e ripiegando più volte su lunghi intermezzi Progressive e floydiani (questi ultimi soprattutto nel cantato di Fox), conduce ad un rock melodico anni '70 contaminato da synth di sottofondo alla
Standing on the Shoulder of Giants.
"Pain Killers" (il secondo
highlight del disco) è invece un richiamo ai
Sabs di
"Sabbra Cadabra", con una base più veloce rispetto ai loro standard e toni più "metallari".
"Disappear" torna ai ritmi lenti e cadenzati sorretti da un basso in stile
"Hand of Doom", ma con evidenti richiami - in particolare chitarristici - al migliore lato "decadente" dei Pink Floyd (e un Hammond azzeccatissimo come sottofondo per l'intero brano). Da non trascurare il bel riff rock-blues di intermezzo che a molti farà tornare in mente Blackmore e Lord.
"Rock & Roll Contract" amplia decisamente i temi, e se gli Oasis vi sembrano
retrò allora in questo brano potrete ascoltarli in una versione molto più "lennoniana" di quella originale, e la variazione sul
leitmotiv è ancora un potente rock-blues che conduce al finale, stavolta sulle rapide note Jazz del piano di Fox.
"Sunshine Suicide" richiama il filone
Prog moderno per ciò che riguarda gli stacchi repentini, mentre al livello strettamente melodico è un orecchiabile rock anni '70 con lunghi assoli di chitarra
Hard.
"Falling Bombs" fa un "salto nella modernità", per così dire: rock melodico contemporaneo nel tema principale, svaria su temi Blues, Prog-Metal e onirico-psichedelici, e forse è il
crossover più "spinto" dell'intero disco. Siamo a
"Black Moth", in cui basso e Hammond guidano temi decisamente soft ricordando molto da vicino
"Dazed and Confused" degli
Zep, per poi condurre ad un classico Stoner arricchito dalla presenza di accattivanti chitarre distorte in stile
wah-wah. Questi ultimi due brani annoverano il contributo di Richard Anton, membro fondatore della band, fuoriuscitone però sin dal '96.
"Carry the Load" riscopre le tonalità cupe e dirompenti dell'Hard-Blues in stile Black Sabbath, citando però ancora Gilmour & Co..
"Burning Bridges" si apre con un bell'Hammond in stile Deep Purple, e da malinconico valzer si trasforma rapidamente un maestoso e barocco rock che ricorda per certi versi il
sound dei Muse (qui è ancora l'Hammond a dominare, ma in chiave "drammatica").
"Bats In The Belfry I" (è giusto, la prima parte viene proprio dopo la seconda...) ha una "clownesca"
intro alla Mr. Bungle, poi riprende il tema del quasi omonimo brano all'inizio del disco, stavolta però in chiave più
burlesque e per certi tratti jazzistica (in ogni caso dal sapore dannatamente orrifico...). Il lavoro si chiude con
"$", un brano eseguito solo da Fox, un voce+piano che non è certo la punta di diamante (nè vuole esserlo), ma completa bene il disco. A tal proposito, prendetevi l'album successivo per sapere come va a finire...
In definitiva siamo davanti ad un album ben fatto (i Bigelf non sono i Queen, sia chiaro, però il loro dovere lo fanno egregiamente), ma soprattutto ad una dimostrazione di personalità, che un tempo si vendeva come il pane ma che da un po' non si vedeva più: per anni ci si è trovati di fronte a musicisti anche potenzialmente validi, ma privi del necessario "spirito d'avventura" necessario a fare il
rocker. Niente rischi, non si scontenta nessuno, guadagno e celebrità sono comunque assicurati (insomma, minimo sindacale...). Ciò che tutti sappiamo, in definitiva. Ecco perché siamo ancora qui a chiederci (almeno chi non è ancora mutato geneticamente in un assatanato death-metallaro) se era meglio Jimmy Page o Ritchie Blackmore... Dopo aver ascoltato questo disco se non altro potremo smetterla per un attimo di porci simili interrogativi esistenziali e tornare a provare curiosità per il pezzo successivo, oltre che chiudere gli occhi e assaporare una per una le note. La strada è quella giusta, lo spirito anche, allora la prossima volta avremo che rispondere quando l'emaciato fan di turno di Marco (S)Carta o del tizio che canta la sigla dei Pokemon ci rinfaccerà di ammirare dei "vecchietti" di 65 anni. O, se ancora non colgono, resta pur sempre l'opzione del pestaggio all'inglese (si scherza, ovviamente)...
Ma, a parte le chiacchiere, è l'equilibrio dell'insieme che distingue questo disco. Riesce a fondere cose belle del passato creando qualcosa che, con l'occhio (anzi, l'orecchio) di oggi costituisce qualcosa di più della somma delle singole componenti. E' quindi la dimostrazione che si può creare anche con il trascorso, a patto che sia di qualità. Ascoltandolo ci si può abbandonare ai ricordi o scoprire ciò che di nuovo hanno da dire questi musicisti, ed è questa pluralità di punti di vista che te li fa ascoltare più e più volte. Davvero una bella "novità", non c'è che dire.
TRACKLIST1. Madhatter
2. Bats In the Belfry II
3. Pain Killers
4. Disappear
5. Rock & Roll Contract
6. Sunshine Suicide
7. Falling Bombs
8. Black Moth
9. Carry The Load
10. Burning Bridges
11. Bats In The Belfry I
12. $
Giudizio personale: Bello